COMMENTO AL VANGELO DOMENICA 22 gennaio 2012

Mc 1,14-20

Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono.
Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.


III Vangelo della vocazione e le dinamiche della chiamata e della risposta
di Rosanna Virgili
La vocazione come incontro con Dio
Abitualmente quando parliamo di vocazione nei Vangeli intendiamo quella degli apostoli e dei discepoli di Gesù. Non sempre pensiamo a come questa vocazione sia il secondo anello di una catena che ha inizio con Gesù stesso. Prima di chiamare i suoi, infatti, Gesù ricevette, a sua volta, una chiamata, accolse la sua, di `vocazione'. Essa si rivelava attraverso il Battesimo di Giovanni e le tentazioni nel deserto. "Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto" (Mt 3,17). Così dice la voce che esce dal cielo quando Gesù è battezzato. Era una `vocazione' - in senso lato - era un destino, una missione: quella di abbracciare il Suo essere Figlio di Dio. Per accoglierla, Gesù dovette dare una risposta forte, decisa, coraggiosa. Dovette affrontare il Tentatore: "Se sei Figlio di Dio dì che questi sassi diventino pane" lo insidiava la voce del sospetto e del dubbio. "Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio" (Mt 4,3-4) rispondeva Gesù con l'intelligenza della sua vocazione, cioè la decisione di essere fedele a quella sua altra, diversa, identità: egli non è più soltanto Gesù il Nazareno, ma è anche ii Figlio di Dio. Tanto è vero che sa, che sceglie, che vuole vivere non solo di pane, ma di Parola di Dio. Cioè di libertà e di relazione. E questa Parola diventerà pane nella sua stessa bocca: la sua vocazione si tradurrà in una precisa missione: "Mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, ad annunciare la libertà ai prigionieri e ai ciechi la vista (...) Per proclamare un anno di grazia del Signore" (Lc 4,18). La vocazione diventa opera di Amore e di riscatto, un abbraccio al mondo.

Ma la stessa `vocazione' del Figlio di Dio possiede un retroterra. I Vangeli dell'infanzia affondano addirittura nella preistoria di Gesù. Succede, infatti, che nemmeno quello di Gesù sia il primo anello della collana vocazionale, ma prima ci siano la 'vocazione'di Maria ed anche di Giuseppe, suo padre adottivo. Essi furono chiamati a seguire il disegno di Dio che li voleva genitori - ciascuno con un proprio carisma ed `ufficio' - di un Figlio di Dio. Ciò mostra plasticamente che non esiste da nessuna parte una vocazione come realtà isolata, prodigiosa, magica. Che la vocazione è un tessuto di memoria, di legami, di voci che anelano, denunciano, si alleano. Che nasce a un crocevia, ad una confluenza di percorsi e di desideri, che è frutto di un incontro, di una esperienza di vita aperta, esposta, condivisa. Come ogni storia di amore la vocazione non è una cattedrale nel deserto, ma il farsi carne di un esserci, là dove c'è chi chiama e chi cerca. Un eccomi, un "sono qui", un voglio mettermi in gioco anch'io nel grido del mondo. Penetrando nella memoria della vocazione arriviamo, così, al suo anello primordiale e misterioso: quello dove si trova la vocazione stessa di Dio. La Sua chiamata ad ascoltare il grido dell'uomo nel dolore, nella schiavitù, nell'ingiustizia. È l'uomo, infatti, a chiamare Dio, a gridare per primo verso il cielo. Quando nessuno sulla terra lo ascolta. Allora ci fu un Dio che aprì il Suo orecchio, che ascoltò la voce e scelse di coinvolgersi, disse di sì e si abbassò e scese e sposò la causa di Israele. Tanto rispose a quella vocazione che per potervi assolvere del tutto si fece, infine, carne, corpo, tatuando su di sé le tracce di fragilità, la debolezza, l'impotenza, della sua creatura.



La vocazione come incontro con l'uomo: "Erano pescatori" "Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di
Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano, infatti, pescatori. Gesù disse loro: "Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di
uomini". E subito, lasciate le reti, lo seguirono" (Mc 1,16-18).


Il quadro che presenta la chiamata dei primi quattro discepoli in Marco è fonte di spunti interessanti di riflessione. Al di là di un'apparente e superficiale visione romantica, innanzitutto colpisce l'ambiente profano in cui essa avviene e il suo "ambiente ideale" (E. SCHWEIZER). Gesù si spinge nei luoghi del lavoro e della più ordinaria umanità. Trasposto nel contesto della nostra società, possiamo pensare ad un porto commerciale dove le imbarcazioni da pesca sostano fino ad ora tarda, finché non giunga il tempo di spingersi al largo, a gettare le reti, nel cuore della notte o alle prime veglie del mattino.
Un ambiente non privo di fascino, certo, con le sue luci tremolanti sugli specchi gorgoglianti dell'acqua, ma neppure di rischi, di bestemmie, e di cattivi odori. Nella cui area circolano, senza dubbio, anche prostitute, ladri, trafficoni e trafficanti di ogni merce e di ogni sorta. Del resto è cosi, in tutti i porti del mondo. Solitamente queste sono anche le zone più malfamate di una città. Nelle lingua italiana si usa un proverbio per descrivere una realtà corrotta e caotica e si dice: "È un porto di mare!". Può rendere l'idea.. Il cantautore Fabrizio De André ne dà una descrizione efficace e poetica, nella sua canzone "La città vecchia" che a Genova è proprio quella della zona del Porto (Vecchio): "Nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi (...) Se ti inoltrerai lungo le cascate dei vecchi moli, in quell'area strana, gonfia di odori, lì ci troverai il ladro, l'assassino e il tipo strano, quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano" !

Se Simone e suo fratello stavano, dunque, "gettando le reti", vuol dire che la notte era inoltrata. E questa è un'altra stranezza, che fa pensare che Gesù dovesse esserci andato apposta a quell'ora ed in quel luogo, vegliando sulla notte sino ad ore antelucane. La chiamata dei suoi discepoli, la loro vocazione è un autentico "lavoro" per Gesù... E se è vero che Lui è il Figlio di Dio, allora, questo Dio è Qualcuno che si scomoda, che esce dai suoi ambienti sacri e dorati e si porta in quelli maleodoranti e impuri dei porti di mare.
Non era certo usuale che la gente passasse per caso a quelle ore della notte là dove i pescatori armeggiavano con le loro reti. Gesù ci era andato con uno scopo preciso. Questa uscita del Figlio di Dio nei luoghi della umanità "profonda" è un fatto imbarazzante ed importante, che deve essere compreso e interpretato. Nella storia della Bibbia, esso appare come un cammino a ritroso, come un Esodo rovesciato! È come se Dio uscisse, questa volta dalla Terra promessa (terra sacra del suo Tempio e della Sua Città) per entrare in Egitto, nel paese della contaminazione e della schiavitù! E - fatto ancora più intrigante e anomalo - è come se il Figlio stesso di Dio andasse a cercare - simbolicamente - proprio nella terra dell'idolatria, del culto al Dio Sole e al Dio della ricchezza, dell'opulenza e dell'autonomia umana, i suoi più stretti collaboratori. Vuol dire che Gesù sa che per essere suoi discepoli ed apostoli della sua parola, nessuno è più indicato di chi incarna davvero il "grido" del secolo, la realtà dell'oggi. Di chi parla e fa parte di "questa generazione". Quella del Vangelo, allora, si presenta come una Parola che esce dal seminato, una rivelazione nuova, una incarnazione senza tutela né protezione di Sacra Tradizione.. .a cominciare da qui.

Del resto un po' tutto il NT rappresenta un cammino sull'acqua, una navigazione, un attraversamento, un itinerario di partenze, di approdi, di uscite, di incontri. Luca, il terzo evangelista, lo indica in maniera letterale, quando, in apertura del suo Vangelo, ancora nei versetti del Prologo, dice: "Poiché molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero "rematori della parola" (uperetai tou logou)" (Lc 1,1-2). La Parola del Vangelo viene "remata", cioè condotta sulle rotte contaminate di quel mare che è il mondo. Questa Parola è per il mondo, per una realtà aperta, plurale, meticcia, complessa ed anche coi-rotta. La stessa regione di Galilea e il Mare di Tiberiade dove Gesù chiama i suoi primi quattro discepoli non è certo la chiusa e santa Giudea, piuttosto la regione dei lontani, confinanti con i popoli pagani, popolata di peccatori e indemoniati.

Se pensiamo, poi, a Paolo ed alla sua straordinaria missione di evangelizzazione, ci troviamo ancora nelle città di porto. Un caso esemplare: Corinto, città dei due porti. Quasi superfluo è ricordare l'effervescenza delle Chiese di Corinto, la loro ricchezza spirituale, i radicamenti che trovò la Parola della Sapienza della Croce nell'humus della città delle corinzie, delle donne senza velo, e di un clima di assoluta libertà in cui si diceva: "Tutto mi è lecito" (cfr. 1Cor 6,12**)! Un ambiente così carico dello spirito e della cultura del suo tempo!

Proprio in questo clima in apparenza pericoloso e ostile al messaggio del Vangelo, Paolo trovò i suoi più amati a fidati collaboratori: Aquila e Prisca, coppia nella cui casa Paolo abitava; Febe, la diacona del porto di Cencre (uno dei due porti di Corinto, "Ha protetto molti ed anche me stesso", cfr. Rm 16,1-2); Stefana e la sua famiglia ("hanno dedicato se stessi al servizio dei santi", cfr. 1 Cor 16,15-18); per quelle Chiese Paolo scrisse le sue lettere sulla Chiesa!


La vocazione come rivelazione: I racconti biblici della chiamata e della risposta
"Andando un poco oltre Gesù vide sulla barca anche Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello, mentre riassettavano le reti. Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedeo sulla barca con i
garzoni, lo seguirono" (Mc 1,19-20).


Che cos'è la vocazione e come avviene la "chiamata"? I racconti dei Vangeli si accomunano a quelli dell'intera Bibbia nella dinamica e negli elementi che guidano una chiamata. Essa è composta sempre da due tempi: il primo è quello dell'inizio, dell'impatto, dell'incontro. Qualcuno si presenta, irrompe nella vita di una persona. Si tratta di Dio o di Gesù, come nel caso dei figli di Zebedeo. Questi si mostra come persona concreta - Gesù, ad esempio - oppure come una visione di Dio (cfr. Is 6,1); o come un angelo del Signore in una fiamma di fuoco (a Mosè in Es 3,2), semplicemente come voce di Dio (ad Abramo in Gen 12,1 ss.) o come parola (a Geremia in Ger 4,ss.); e ancora come una luce accecante che fa cadere Paolo da cavallo (cfr. At 9; ecc.).

Si tratta di momenti speciali e di fatti il più delle volte irruenti e schiaccianti, che non lasciano troppo spazio alla titubanza nella risposta e nell'adesione. In tutti i casi citati - che non sono gli unici, ma ce ne sono molti altri - a questo primo momento della chiamata di Dio o di Gesù segue, infatti, non soltanto una risposta positiva, ma anche un autentico, netto cambiamento nella vita di chi resta coinvolto.

Ma tutti i racconti fanno, altresì, capire anche chiaramente che la chiamata non è davvero così lapidaria e chiara e neppure la risposta: e qui viene il secondo tempo della vocazione, quello che accompagna tutta la vita dei chiamati, dei profeti e degli apostoli. Nessuno di loro considera e vive la sua vocazione come un possesso certo, come una cosa ormai scontata, compresa fino in fondo e "gestibile" senza più problemi o sorprese. Nessuno la fa sua!

Prendiamo Mosè: per ben cinque volte egli cerca di resistere alla chiamata di Adonai, opponendovi problemi e inadeguatezze di ogni sorta. Citiamo alcune delle sue obiezioni: "Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall'Egitto gli Israeliti?" (Es 3,11); "Non mi crederanno, non ascolteranno la mia voce, ma diranno: non ti è apparso il Signore" (Es 4,1); "Mio Signore, io non sono un buon parlatore (ma sono impaccato di bocca e di lingua" (Es 4,10). E questo non è che l'inizio! Nel bel mezzo del cammino dell'Esodo, alle pendici del Sinai, Mosè tornerà a mettere in crisi la sua chiamata, tentato di tirarsi fuori da essa: "Cancella anche ma dal libro che hai scritto" (Es 32,32).

La vocazione appare nella storia di Mosè come una dinamica sempre precaria; ogni giorno la chiamata assume nuove esigenze e nuovi aspetti, per cui la risposta deve essere rinnovata ad ogni occasione. Nessuna delle due è statica e ripetitiva. Questo perché la vocazione è un patto di amore, una alleanza di fedeltà, che esige un coinvolgimento affettivo, esistenziale, morale e perfino fisico. Un legame tanto compromettente, quanto libero e incondizionato. Una esperienza che solo gli adulti possono reggere; che non si può cucire sui minorenni e su chi deve ancora acquisire una maturità umana. Cioè la capacità di sostenere la libertà dell'Altro, la Solitudine dall'Altro, il Silenzio dell'Altro. La vocazione non è una protezione, al contrario è una via senza portici a coprirla per la pioggia, e senza indicazioni a garantirne l'esito.

La chiamata pone dinanzi ad una scelta che è addirittura quella di una identità. Si può capire quanta maturità sia necessaria. Mosè aveva la possibilità di restare alla corte dell'Egitto, di restare egiziano. Questa era una sua personale e privata identità, peraltro facile e vantaggiosa, dato che era stato adottato dalla figlia di Faraone. Ma sceglie quella di essere ebreo, identità molto più scomoda e gravosa, in quel preciso contesto, da sembrare assurda, dal punto di vista umano... ciò perché Dio lo chiama a rispondere con Lui del "grido del suo popolo in Egitto", a farsi partecipe della sua stessa vocazione.

"Il Signore disse: ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze (...). Sono sceso per liberarlo dalla mano dell'Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, dove scorre latte e miele (...) ho visto l'oppressione con cui gli Egiziani li tormentano. Ora và! Io ti mando dal Faraone; fa uscire dall'Egitto il mio popolo, gli Israeliti" (Es 3,7ss.).

Ogni vocazione nasce come scelta di diventare - o riconoscersi! - identità condivisa con quella di Dio! Essa porta con sé la scelta di essere parte del mondo dei poveri, degli schiavi e dei sofferenti. Nessuna vocazione biblica e cristiana può prescindere da questa decisione. La vocazione è semplicemente una risposta al grido del mondo sommerso che è impastato del grido stesso di Dio. Quello stesso grido che Gesù leverà sulla Croce, dopo aver detto "Ho sete" e dopo aver denunciato l'angoscia dell'abbandono: "Dio mio, perché mi hai abbandonato?".

In virtù di tutto ciò, la vocazione si trasforma, poi, pian piano, in annuncio di libertà per tutti gli uomini, a qualsiasi latitudine si trovino, vicino o lontano da noi: è grido che diventa euanghellion. "Mi ha mandato ad annunciare il lieto messaggio ai poveri...". Ogni vocazione si fa bocca che annuncia "un paese bello e spazioso", voce di speranza e di futuro per chi vive nello squallore dei sobborghi delle metropoli del mondo. Negli appartamenti di 25 metri quadrati, o negli slums dove non si vede mai la luce del sole. Ogni vocazione grida per un riscatto degli ultimi, delle vittime innocenti, delle infanzie negate. Una mitezza forte, che affronta la violenza e la paura.

Farsi parte, pane, diritto, giustizia, pace e parole di chi non ha parte, pane, diritto, giustizia, pace e parole questa è la scelta di rispondere sì alla chiamata. Tutto ciò è il cammino dell'intera vita, il tempo di una difficile, ma stupenda metanoia. L'esodo da una identità chiusa e individualistica, verso una identità aperta, graffiata, sensibile,dove non è importante sapere se sono io che vivo, o il Cristo che vive in me...

Anche Giacomo e Giovanni - come Mosè - potevano restare imprenditori ittici, non mancavano di una identità. Ma la chiamata di Dio li pone dinanzi ad una scelta: vuoi abbracciare un'altra identità? O meglio: vuoi investire il plusvalore ottenuto con la tua identità di nascita per superarne il limite, facendola aprire ad un'altra in cui nessuna , singola, particolare, identità neghi quella dell'altro? "Vi farò pescatori di uomini" propone Gesù ai pescatori di pesce. Come a dire: una sola identità vi farebbe restare chiusi alle acque di questo piccolo Mar di Galilea, mentre l'abbraccio a tutte le identità degli uomini vi permetterà di diventare una barca universale, una rete di salvezza sconfinata. Il vostro terreno identitario non sarà più il chiuso lago di Tiberiade, ma il vasto Mar Mediterraneo, mare aperto al bacio di rive, note ed ignote, di lingue familiari e straniere e orientato ai confini del mondo. Questa chiamata esige una risposta che sia il progresso verso una terra di mezzo, una identità di comunione: niente altro che la parola del Vangelo.

La risposta, poi, non è certo teorica o ideale, ma qualcosa di molto concreto e fattivo. La scelta porta con sé l'azione quotidiana, la presa di posizione chiara e coraggiosa. Spesso diventa un signum contraddictionis e allora occorre trovare molta forza e soprattutto rivangare le ragioni della ri-posta alla chiamata. La Bibbia non manca di raccontare esperienze del genere. Prendiamo Geremia, ad esempio. Egli soffre la persecuzione a causa della lealtà ed autenticità della sua vocazione. Gli abitanti di Gerusalemme, ma anche i suoi parenti di Anatot, non possono soffrire la sua parola. Eppure l'ha ricevuta da Dio stesso, è stato Lui a mettergliela in bocca: "Quando le tue parole mi vennero incontro le divorai con avidità la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore" (Ger 15,16).

Ma accade che quella parola che Dio gli ha consegnato, alla cui profezia Egli stesso l'ha chiamato, non sia gradita a coloro per i quali è stata data. Per la cui salvezza è stata data. Geremia subirà la persecuzione e perfino la condanna a morte dal popolo e dai re di Giuda, proprio a causa della sua vocazione. La stessa sorte è segnata per i discepoli di Gesù, cui Egli stesso annuncia una strana beatitudine: "Beati voi quando vi perseguiteranno, vi insulteranno e mentendo diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia... rallegratevi ed esultate (...) così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi" (Mt 5,11). È il prezzo da pagare per essere sale e lievito della terra.

Ma la reazione a queste enormi prove non è certo di compiacimento o di vanagloria da parte dei chiamati. Al contrario essi maturano una fragilità crescente, un'umiltà concreta, una debolezza ed un'inermità che li conduce persino a piangere sul proprio destino:"Me infelice madre mia che mi hai partorito, oggetto di litigio e di contrasto per tutto il paese" (Ger 15,10); ad implorare l'aiuto di Dio, a chiedergli di farsi vivo, di non lasciare solo colui che ha chiamato: "Tu mi conosci, Signore, tu mi vedi, tu sai che il tuo cuore è con te" (12,3), si trova a gridare Ma non sempre Dio si fa sentire, non sempre si presenta in soccorso del suo profeta e allora non mancano neppure le parole di accusa contro di Lui: "Perché il mio dolore è senza fine e la mia piaga incurabile non vuol guarire? Tu sei diventato per me un torrente infido dalle acque incostanti" (Ger 15,18).

La vocazione non ha come effetto la presunzione di essere garantiti da Dio, né l'arroganza di pensare di essere da Lui approvati, protetti, legittimati, custoditi. Non è così. Rispondere alla chiamata di Dio vuol dire esporsi ad ogni rischio, non escluso quello dell'essere dei "servi inutili". Nessuno mai si vanterà della propria vocazione; ne sarà piuttosto umile servo, seduto agli ultimi posti della mensa dello Sposo.

Paolo, il grande Apostolo del Vangelo del Cristo ne sarà una icona perfetta: "Ultimo tra tutti apparve anche a me, come a un aborto. Io infatti sono l'infimo degli apostoli e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo" (1Cor 15,8-9). E ancora Paolo interpreta l'autenticità della vocazione secondo una logica rovesciata, rispetto non solo a quella del mondo, ma anche a quella dei ministri di Cristo: "Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte" (2Cor 11,23).


Una decisione speciale


La vocazione è, dunque, non una condizione speciale e privilegiata di vita, quanto un'esperienza del tutto speciale. Chiede una decisione ed una sensibilità, una cura, un'intelligenza ed una volontà molto speciali.

La vocazione al Vangelo esige un grande impegno di vita, intesa come capacità di riflessione, di comprensione, di intuizione, di conoscenza. Chiede una profondità, un tempo di silenzio, una deontologia nei rapporti con le cose e le persone. Coinvolgersi con la Parola del Vangelo vuol dire iniziare e condurre per sempre un percorso dentro e fuori se stessi. Camminare lentamente verso se stessi, incontrare il proprio cuore. Vincere ogni giorno la paura, attraversandola. Vincere la pigrizia, la banalità del rimandare a domani. Esplorare quella parte che non si vede e che resta avvolta sempre nel mistero. Osare di vedere ciò che non si vede. Guardare al buio. Confessare la Presenza di Qualcuno che sfugge; una trascendenza che non potrà mai essere ridotto a superficie. Un Verbo che si fa carne e continua ad esser Verbo mentre si fa carne. Mai si cristallizza in forme statiche, definite, dogmtizzate.

Un Corpo duttile che forma con il Corpo dell'altro un unico Spirito. Un Corpo di Spirito, cioè un concerto di molte membra, di molte voci, di molti carismi. Sono solo le sillabe del segreto, della parte intima di ogni vocazione. Quella più importante, come le radici dell'albero, nascoste sotto terra. Quell'itinerario personale ed unico indisperato Geremia.cui ciascuno deve perdersi e perderci tempo, che portava Geremia a sentire parole così invasive, inedite, enigmatiche : "prima di formarti nel grembo materno, io ti ho conosciuto, prima che uscissi alla luce ti ho consacrato" (Ger 1,5). La percezione di non essere mai stati soli. Di una compagnia presente come attraverso un velo. Quello del tempo e dell'eternità, della libertà e dell'amore. Una storia di seduzione, dunque, pudica e forte, delicata e irresistibile, allo stesso tempo, che fa cedere, dopo lungo assedio, il profeta: "Tu mi hai sedotto, Signore, hai fatto forza ed hai prevalso" (Ger 20,7).


 

La vocazione come missione
"Ne costituì Dodici perché stessero con Lui ed anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni" (Mc 3,1415).


Arriviamo, così, alla missione della vocazione cristiana, secondo le parole di Gesù. Essa ci stupisce e ci fa perfino tenerezza! Gesù chiama i Dodici perché stiano con Lui. Al di là e prima del fatto che ciò indichi, simbolicamente, la loro consacrazione al Signore, c'è l'aspetto umano di Gesù, il bisogno di amici, di compagni, di affetti. Di una famiglia! Un bisogno che riafficrerà con prepotenza e amarezza la notte del
Monte degli Ulivi, quando nessuno poiché nessuno di loro restò sveglio accanto al suo dolore... nessuno seppe prestar fede alla sua vocazione!

Il fine primo di una vocazione cristiana è dunque quello di essere compagni, di restare accanto all'altro, per sempre. È un patto con l'umanità. Ciò vuol dire restare accanto a Gesù stesso "Ogni volta che avrete dato un bicchiere d'acqua fresca ad uno di questi piccoli l'avrete fatto a me". La missione di tutta la Chiesa è questa: stare accanto all'umanità, sempre e dovunque essa si mostri, si nasconda o si perda. È la stessa vocazione di Dio. Là troveremo e porteremo il Suo Volto, là troveremo e metteremo all'opera le Sue braccia, con le nostre. Là vedremo guarite le malattie dell'anima e del corpo e arriverà la consolazione, il sollievo, la luce. Là ci sarà un medico, un Vangelo di Speranza, di riscatto, di libertà. Questa condivisione, questa incarnazione è la via di conoscenza di Dio che i Vangeli indicano. La Chiesa non è chiamata, infatti, a condannare il mondo, ma a salvarlo. Dai frutti si riconosce l'albero.


Riflessioni sull'attualità


L'humus della Chiesa cristiana si trova, dunque, fuori dal fanum (il luogo sacro, il tempio) nel pro-fanum! Quale riflessione conduce, per la nostra attualità vocazionale europea questo spaccato neotestamentario? Credo una seria e importante riflessione. Il milieu in cui viviamo oggi in Europa è in più aspetti simile a quello del NT. Come quello anche il nostro è un mondo aperto, dove si incrociano diverse culture, religioni e modi di pensare. Occorre allora considerare che una vocazione alla Parola contempli una chiamata al farsi canale di umiltà e di comunicare con l'altro; di una Parola che sia nutrita dal desiderio di dialogo, in dialogo, in ricerca, ed anche in divenire. Una parola che esca dalle secche del dogmatismo, del moralismo, e del legalismo, canoni - ahimé - ormai del tutto impotenti se non addirittura pletorici e indifferenti, e si sciolga nella duttilità dell'acqua della Sapienza evangelica, del confronto e del rispetto altrui, della "
gara nelle stima vicendevole", dove ci sia posto per il consenso, senza la censura del dissenso, ed ambedue questi poli possano esseri superati nella libertà di quella "fede che opera attraverso l'agape", come dice Paolo (Gal 5,6).

La cultura europea contemporanea è, tuttavia, in un aspetto fondamentale, diversa da quella dei tempi di Marco, di Luca o di Paolo: essa ha postulato la `morte di Dio' e pratica l'ateismo. L'uomo contemporaneo avendo "ucciso" Dio ha anche rinunciato ad una concezione di se stesso che, nel passato era proprio relativa e condizionata all'idea ed alla figura di quel suo Dio. Quanto con un'espressione sintetica verrebbe oggi chiamata: la rivoluzione antropologica. Siamo dinanzi non solo ad un altro mondo, ad un altro assetto socio/economico rispetto a quello tradizionale, a nuovi codici di etica (o non -etica!) e ad una crisi inevitabile della morale, ma anche ad un "altro" uomo. Basti solo pensare ai mutamenti portati dalla psicologia, dalla sociologia , la tecnologia, dalla medicina, dalla chirurgia, dalla genetica e dalla biologia, al corpo umano, e quindi ai ritmi delle età della vita, alle modalità dei rapporti di coppia, dei padri e delle madri con i figli, e viceversa.

Se non vogliamo giungere a sottoscrivere - con i grandi filosofi/teorici del Novecento - la morte di Dio, dobbiamo, insomma, constatare che sia ormai seppellita una certa concezione, una certa immagine di Dio. E con essa è morta anche una concezione dell'uomo; un primo grande esempio sul piano della psicologia è questo: superata l'idea di Dio come Padre, e rigettata la sua autorità, l'Occidente ha rifiutato anche l'autorità coniugale sulla moglie, e quella paterna sui figli, nella famiglia. La rivoluzione femminista ha condotto a sconvolgimenti nel rapporto di genere, di estrema importanza e valore irreversibile, per cui i due sessi e i relativi ruoli appaiono - o vorrebbero apparire - su un identico grado di dignità e autorevolezza. Riguardo, invece, ai figli, a causa della famosa `morte del Padre', ora l'uomo contemporaneo ha perduto la sua coscienza filiare, non si riconosce più come figlio, come creatura, in una dipendenza morale dalla sua origine, che nella cultura del passato era significata proprio dal genitore paterno. Mentre la madre, infatti, è la matrice della vita del corpo, il padre rappresenta (meglio: rappresentava) un passaggio mediato, cioè qualcuno che rende figli i suoi figli trasmettendo loro parole
e "valori".

Dalla perdita della percezione di essere `figli', in questo senso, a quella di essere anche fratelli, il passo è breve; difatti è proprio dal riconoscere la figliolanza che si definisce il fratello, cioè il figlio dello stesso padre.

Ma ci sono altri fattori che hanno condotto alla nuova "antropologia". Uno dei piùtestimonianza per poter importanti è quello socio/economico e politico. La grande emancipazione economica che ha ottenuto l'Europa nel Novecento - con punte massime nella seconda metà, dopo le due guerre - ha stabilito dei mutamenti di prospettiva decisivi, per cui l'uomo ha finalmente espugnato il dominio della fame e della miseria e non si sente più soggiogato alla morsa del bisogno. Avendo trovato anche le chiavi per ottenere una sempre maggiore e più facile ricchezza, l'uomo occidentale si sente ben padrone del suo destino, in questo ambito. Contestualmente le `rivoluzioni' politiche, che hanno portato all'avvento delle democrazie in tutti i paesi, hanno garantito non solo diritti e doveri, ma anche promosso una innegabile condizione di dignità e di libertà a tutti i
cittadini.

Da ultimo, lo sviluppo maestoso della scienza e della tecnologia, della medicina e della ingegneria genetica e, più recentemente delle affascinantissime neuro-scienze - hanno introdotto la nuova umanità in un orizzonte inedito, dove le cose, ieri impensabili, diventano plausibili; dove si può sperare di guarire dalle malattie per mezzo di sofisticate soluzioni chirurgiche e perfino raddoppiare l'età media degli esseri umani. Con questi mezzi e queste prospettive, si può sfidare la grande nemica dell'uomo, la vecchiaia, e si può persino pensare di sfidare la morte.

Ora questa nuova realtà antropologica non può evitare di misurarsi con una nuova "realtà divina". Come parlare ancora di. Dio `padre' e di 'uomini-figli' e`fratelli' a chi non ha più una chiara percezione di questa identità? Come parlare del Diocreatore dopo Darwin? Come parlare ancora del Dio dell'Esodo, che risponde alla miseria ed alla povertà se ci riteniamo ormai emancipati dalla povertà economica? Come parlare del Dio che libera Israele dal Faraone (il dominatore politico) a paesi che di libertà ne hanno abbastanza? Come parlare di un Dio che promette una migliore vita ultratei-rena, se sembra possibile ottenerne una davvero migliore e lunghissima su questa terra? Quale Dio può rispondere alla nuova condizione della civiltà europea?
È ovvio che non siamo noi, ora, a poter dare risposta a questa domanda; quanto possiamo fare, in conclusione della nostra riflessione, è soltanto dei brevi appunti, delle semplici suggestioni, sulla ricaduta che questa situazione ha sulla realtà delle vocazioni nella nostra Europa.


 

I mutamenti e le loro ricadute sulle vocazioni in Europa


Questi radicali e generali mutamenti hanno, infatti, condotto a quella crisi delle vocazioni di cui il nostro continente è afflitto. Credo si debba più precisamente parlare di "crisi delle vocazioni tradizionali", cioè caduta delle vecchie tipologie vocazionali. Su questo punto doloroso e decisivo molto ci può, però, ancora aiutare/dire la Parola della Scrittura.

Basti pensare a come le comunità cristiane delle origini si trovassero, a loro volta,dinanzi alla fine di un mondo e all'inizio di un altro, che vedeva il fallimento delle vocazioni tradizionali - che per loro erano quelle del Giudaismo dell'epoca - e non solo, ma che addirittura Gesù e gli Apostoli promuovessero questo fallimento e auspicassero un superamento di esse.

Si pensi al sacerdozio del Tempio che il cristianesimo abbandona del tutto. Con Gesù la `vocazione' degli antichi profeti di Israele trova il suo compimento e quindi la sua fine, il suo riposo; si pensi a Simeone ed Anna in Lc 2,25.36, "Ora lascia, O Signore che il tuo servo vada in pace (... ) perché i miei occhi han visto la tua salvezza" Lc 2,29-30); mentre Gesù stesso critica aspramente ed azzera l'autorità di altri tipi di `vocazione', quali quelle dei custodi della Legge e dei suoi maestri (Scribi, Farisei e Zeloti). Quelle "chiamate" erano diventate delle vere e proprie caste di potere, che Gesù definisce "ipocrite", incapaci di trasmettere la Parola di Dio, abusive della Legge e impotenti a condurre la Salvezza ("Non crediate di poter dire fra voi: abbiamo per padre Abramo. Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre" dirà il Battista in Mt 3,9).

Col cristianesimo siamo di fronte ad un palinsesto del tutto nuovo, circa le vocazioni, quasi ad un day-after! Gesù recluta i suoi apostoli presso il mare o in ogni caso, fuori dai luoghi sacri, egli stesso non è né sacerdote, né Scriba; similmente Paolo affida il suo Vangelo a donne (!) come Lidia, che incontra a prescindere dalla sinagoga e fuori delle mura della città, presso il fiume, e addirittura nella sua "casa" - la casa di una commerciante di porpora! - sorgerà la prima chiesa d'Occidente, la prima Chiesa d'Europa (cfr. At 16,11-15).

Questi esempi sono molto importanti per noi. Ci aiutano a riflettere sulla grande occasione che stiamo vivendo e di cui forse non ci accorgiamo in pieno, intenti come siamo, troppo spesso, a piangere su quanto si è perduto... dovremmo, invece, sentire il gusto di vivere come nei primi anni del Vangelo, anni kerigmatici dove ad un mondo radicalmente nuovo corrispondeva un annuncio altrettanto inedito, vergine, e tutto da inventare... allora ci si affidava a due suggerimenti, si beveva a due sorgenti: quella della cultura del tempo e quella dello Spirito di Pentecoste.

Così gli Apostoli si trovavano ad imparare dagli uomini lingue, scienze e parole nuove e si trovavano ad avere dal fuoco dello Spirito Santo la capacità ed il dono di farsi comprendere da ciascuno nella sua propria lingua, superando ogni possibile steccato. Il Cristianesimo stabiliva, peraltro, in questo modo la sua stessa vocazione: quella di voler parlare e coinvolgere realtà universali, rinunciando ad aree chiuse, elitarie, destinate ai pochi e custodite dentro steccati religiosi od etici esclusivi.

È un miracolo che oggi assume un valore moltiplicato, data la maggiore ed enorme vastità del mondo in cui la Chiesa vive e con cui si confronta. Le auguriamo di prendere il coraggio a quattro mani e di "uscire sul mondo", e di andare al largo a "remare" la parola, ad imparare le lingue della storia; di osare le incarnazioni necessarie e ragionevoli, senza paura di inoltrarsi verso di esse, anche quando la notte è ormai alta... proprio come fece Gesù quella sera quando l'ora lambiva, ormai, le luci dell'alba, sulle orme d'acqua delle reti, ai piedi di Simone e di Andrea.

Su quelle orme incatturabili, mutanti per loro stessa natura, si gettino altre reti per nuove anime di vocazione, nuovi abiti, nuove forme. Nuovi interlocutori della storia e del grido dell'umanità. Che il Dio vestito delle Tradizioni strette e purtroppo svuotate, del passato, passi il testimone al Dio vivo del Presente, le cui Parole rinascano in tessuti fluidi, come Spirito e Anime di Voce, prima di farsi altro.


 

Come tradurre in esempi pratici la fedeltà alla chiamata nell'oggi della Chiesa d'Europa?


Questa vocazione all'essere accanto, vicino, in una posizione orizzontale degli uni con gli altri chiede la testimonianza di una autentica prassi di comunione, all'interno della Chiesa stessa. Purtroppo molto resta ancora di una geometria piramidale e di contiguità, in cui tutti si sentono un po' soli sul proprio piano della torre e il proprio spazio, che impedisce la chiara visione della presenza e del volto dell'altro. Così da
non poterne trarre senso, consolazione e profezia. Ciascuno al proprio piano vede davanti a sé soltanto il vuoto. Un difetto che veicola, purtroppo, proprio "la mentalità di questo secolo" e rafforza una coscienza individualistica, separata, da compartimenti stagno. Un peccato mortale, poiché porta con sé la forzatura di essere tutti degli eroi e di dover farcela da soli. In questo modo la fede diventa un semplice ed astratto comandamento morale, un'anima pseudo-pelagiana che si priva della
dolcezza della Grazia e della Comunione. E che spesso condanna a morte i semplici. Ciò che, infatti, talvolta si verifica è uno stile di vita triste e sconsolato, ma anche schizofrenico, sdoppiato, per cui si parla di fraternità e invece ognuno ha la sua "stanza", il suo "carisma", la sua propria "vocazione" separata, dentro la quale egli stesso si sente soffocare.

È tempo che invece di pensare a costruire una torre sempre più alta ed ambigua, che sfiori il cielo e dove ognuno cerca di occupare il livello più in alto, ma che si rivela come una cattedrale nel deserto, pensiamo a scendere e ad abitare le case, a formare nuove famiglie e chiese di fraternità dove tutte le vocazioni trovino posto, dignità e parola, le une accanto alle altre: gli uomini e le donne, le nubili, le vedove, i celibi,
gli sposati, i religiosi e i preti, i vecchi, i giovani e i bambini, manager e poeti, che trovino uno sguardo di incontro, si pongano in un cerchio ideale che gli permetta di riconoscersi gli uni negli altri, dinanzi al Volto di Dio, "nel timore del Signore". La Chiesa guardi ai fiori delle sue vocazioni, come ad un giardino di carismi.

La Chiesa senta se stessa e si faccia sentire al mondo dove vive, come una realtà di amicizia, di rispetto vicendevole, di cammino condiviso, di fatica comune, di sequela del Signore Risorto. Un concerto di voci, che non tema fragilità e debolezza, errori e conflitti, non abbia paura né vergogna della sua carne umana, e dia musica ed ossigeno a tante diverse intelligenze, esperienze, coscienze. Il concerto originale e stupendo della sua originale fraternità.

Oggi siamo chiamati a un nuovo discernimento dei doni dello Spirito. Poiché le vocazioni cambiano e trovano nuove incarnazioni al ritmo della storia. Il Verbo vuole farsi carne. Non possiamo cancellare la forza creativa di quel Verbo, di quella incatturabile parola di Spirito. Perché non pensare a quanti carismi potrebbero essere davvero riconosciuti e valorizzati? Perché fermarci soltanto alle forme tradizionali, nelle quali peraltro, troppo ha contato l'aspetto della deontologia della sessualità? Perché finire per diventare patetici e financo idolatri nell'ansia di trovare a tutti i costi il modo di non chiudere strutture e case religiose e servirsi pertanto di `vocazioni cerotto' che offendono la dignità di tutti, del Signore in primis? Tutte cose del resto estranee alle esigenze di quel `Vangelo spirituale' di cui parla Paolo.

E se oggi siamo di fronte ad una nuova antropologia, come evitare di ripensare le vocazioni al Vangelo rispetto a questi mutamenti e soprattutto per quali sensate ragioni, doverlo fare?

Fiorire - è il fine ...


Colmare il bocciolo - combattere il verme -


ottenere quanta rugiada gli spetta

- regolare il calore - eludere il vento -

sfuggire all'ape ladruncola -

non deludere la natura grande

che l'attende proprio quel giorno -


essere un fiore, è profonda responsabilità.


(Emily Dickinson)