Parma, 29 novembre 2021

CON LA PAROLA E CON LA GENTE

Padre Carlo Uccelli

Il testamento di una vita

 
 



"Che cosa significa per te la missione? Quale ricerca ti ha condotto per tutta la tua vita, cosa hai compreso?"

A queste domande p. Carlo ha risposto raccontando...

Nel clima del Concilio
Gli studi teologici li ho fatti a Roma, all'Angelicum, proprio ai tempi del Concilio Vaticano li. Ad essere sincero, io non mi rendevo neanche conto di quello che accadeva realmente, ma di fatto quelle idee che sono uscite dal Concilio a noi, giovani studenti di teologia di allora, sono sembrate idee normali ed è quello che poi abbiamo sempre cercato di assorbire e di vivere. Nel 1965 ho terminato gli studi e
sono stato ordinato presbitero.

Fra i giovani
Ho chiesto ai Superiori di non fare l'insegnante, non la sentivo la mia vita. In quello stesso anno mi hanno destinato a Parma, allo CSAM (Centro Saveriano di Animazione Missionaria) come responsabile nazionale dell'animazione vocazionale della Congregazione in Italia. Erano gli anni mitici della protesta giovanile e io c'ero in mezzo. Che cosa ho imparato? Mi dicevo: che cosa sono venuto a portare? La Parola di Dio, ma questi giovani cosa capiscono? Ho imparato che capivano solo quello che tu savi vivendo, !a tua vita concreta, e mi sono detto: tu devi conoscere bene questa Parola e poi devi essere radicale nel viverla. E' iniziato per me il tempo della ricerca, durato poi tutta la vita, di una mia formazione personale sulla Parola di Dio, con maestri iniziali come Bose, il card. Martini, Silvano Faust; e Carlos Mesters che mi entusiasmava perché mi sembrava il più concreto. Altri biblisti e bibliste si sono poi affacciati negli anni per guidarmi in questa formazione permanente. Intanto "stavo" con questi giovani. Fanno paura dall'esterno, ma se tu ci vivi in mezzo diventi il loro compagno di vita, diventa tutto più normale e nella semplicità riesci a comunicare. Vivere il Vangelo nella quotidianità, nella semplicità, senza parole grosse, senza grandi attività, nella quotidianità dei fatti concreti della vita, sia con i giovani che con la gente. Questo è stato il primo punto che ho imparato e che poi ho cercato sempre di portare avanti: Parola di Dio e vita condivisa, con i giovani e con la gente. Il secondo apprendimento è nato da una domanda che alcuni di questi giovani mi ponevano: "Noi verremmo con te in missione, Carlo, ma non come preti o suore, ma come giovani normali, come coppia, come famiglia. E' possibile?". "Certo", rispondevo, incominciando a intuire e a desiderare di realizzare un giorno che la missione dovrebbe essere opera di una comunità cristiana, di un'équipe che con vari ministeri la porta avanti concretamente.

Tra i baraccati a Roma
Sulla Parola di Dio vorrei aprire una parentesi, che riguarda la mia difficoltà con la Congregazione. lo sono saveriano, però prima non viene il nostro Fondatore, ma Gesù Cristo. Se il Fondatore è santo, se tutti gli altri sono santi, è perché hanno preso Gesù e la sua Parola come punto di riferimento. Quindi per me prima c'è sempre stata la Parola di Dio, credere ad essa e viverla. Chiaro che poi appartieni per scelta a una famiglia carismatica e alla sua modalità di vita; però prima di sentirmi saveriano io mi sono sempre sentito un battezzato, un cristiano e basta. Per me la parola del nostro Fondatore è sempre stata importante in quanto saveriano, ma una parola sottomessa alla signoria della Parola, quella di Dio contenuta nella Scrittura. Entrando dai saveriani poi avevo sempre sognato
l'Asia, scartando Comboniani e Consolata che parlavano principalmente di Africa. Volevo andare in Asia e pensavo di partire con delle coppie. Avevo scelto la Cina, ma quando le sue frontiere sono state chiuse, avevo optato per l'Indonesia... Sogni mai realizzati per tanti validi motivi. Poi, sempre per animazione giovanile, sono stato mandato in Sardegna, a Cagliari. Dopo cinque anni, ho chiesto un periodo sabbatico e sono andato a vivere con p. Silvio Turazzi tra i baraccati, a Roma. Mi dicevo: non aspettiamo di vivere tra i poveri in Africa, o in America Latina, ma incominciamo a immergerci già qui in Italia in situazioni marginali. E' stato un anno molto bello, di vita con la gente e di ascolto della Parola nelle case dei vicini, tutto un intreccio di giorni condivisi con luci, ombre, cadute e continui ricominciamenti. Lavoravo in una fabbrichetta che intrecciava il giunco ed ero incaricato dei rapporti con i quartieri, come quello di Ostia Nuova. Partecipavo, con altri confratelli, a una vita appassionata di ricerca, rapporti, discussioni e scioperi ed eravamo più di "sinistra" noi con la mentalità evangelica, di quelli che si proclamavano comunisti. Alla fine siamo stati richiamati all'ordine dalla Direzione Generale di allora: "0 andate in missione, o restate lì, ma fuori dalla Congregazione e poi tu Carlo i laici non te li porti in Asia che già fatichiamo noi religiosi". "Con il loro mestiere loro potrebbero inserirsi - rispondevo - e per le fatiche le condivideremo e porteremo insieme", ma, nonostante la grande discussione, non c'è stato verso.

Prime tappe in Zaire
Allora p. Meo Elia, che era in vacanza in Italia, è venuto a cercarmi dicendomi: "Vieni con me nello Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo), dove io vivo già con dei laici". Avendo fatto il noviziato con lui e lavorato insieme allo CSAM, ho accolto la sua proposta e nel 1975 sono partito e sono andato a Kiringye, nella comunità iniziata da p. Meo, a imparare lo swahili. P. Veniero, il Regionale di allora, mi disse: "I primi tre anni è bene che tu viva la missione nella normalità come tutti. Ti mando perciò con p. Andrea Tam a Kasongo in una comunità di Padri Bianchi (o Missionari d'Africa ndr), perché poi essi lasceranno a breve questa missione a noi saveriani". Sono così arrivato a Shabunda, in diocesi di Kasongo, dopo la pasqua del 1976 ed è stata una immersione molto bella nella missione classica. Lunghi safari di una-due settimane, dove andavi con la Land Rover e il cuoco appresso che ti faceva tutto - bello ed entusiasmante, non lo rinnego - e ho vissuto molto bene questo periodo. La missione di Shabunda era lunga 250 Km e in una parte c'era spazio per realizzare il mio sogno: vivere qui con una comunità di laici, ma la proposta è stata bocciata.

A Bunyakiri il sogno si fa realtà
Nel Capitolo generale del 1978 p. Meo Elia, che nel frattempo si era stabilito in questa nuova zona con Emma e Luisa, è stato eletto consigliere ed è partito per Roma. P. Veniero mi ha proposto: "A Bunyakiri c'è bisogno di un altro padre insieme a p. Giovanni Montesi e a un gruppetto di laici, ti senti di inserirti?" Ci sono andato di corsa e Bunyakiri è stata per me una rinascita, perché ho potuto vivere quello che sognavo: la centralità della Parola di Dio nella vita mia, della comunità missionaria e della gente, in una Fraternità mista di preti e laici. Con semplicità facevamo settimanalmente la Lectio tra noi e poi preparavamo gli incontri per le numerose comunità di base del territorio, dove ci recavamo per tre giorni ogni due mesi. Facevamo formazione dei responsabili delle comunità e dei vari ministeri ed era molto bello, perché formavamo vivendo con loro una vita cristiana e missionaria immersa e tessuta nella loro vita quotidiana. La macchina arrivava in pochissimi posti, perciò camminavamo molto, su è giù per le colline e montagne della nostra vasta foresta. Questo camminare per incontrare e formare è stata per me la cosa più bella. Formavamo leader, uomini e donne, che poi formavano a loro volta tutti gli altri cristiani e anche i catecumeni, con quello stile di responsabilità tipico delle comunità di base. La formazione era compito di tutta la nostra comunità missionaria: preti, Emma e Luisa e una coppia di Varese, Marino e Bruna coi loro bimbi, arrivati a rendere più vivace e testimoniale la nostra fraternità. Si discuteva, si ricercava, si proponeva, si preparava insieme, poi ognuno faceva le cose a partire dal suo stato di vita e con le sue capacità, ma sempre tutti per la stessa strada e con le stesse finalità.

Con la gente
Abbiamo impostato una visita pastorale che ci ha condotti in cinque anni a incontrare tutte le 120 comunità di base più grandi alle quali si riferivano altre più piccole. Stavamo in ognuna una settimana intera, vivendo con loro, lavorando con loro, mangiando con loro, portando la Parola e anche discutendo della necessità del progresso sociale che era necessario raggiungere. Ciclostilavamo tre giornalini: Butembo Mpya, che era la base della catechesi; Tuendeleshe Butembo per coscientizzare sulle varie possibilità di promozione umana; Tujifunze Biblia per rendere tutti i cristiani amanti della Parola e capaci di comprenderla, applicando sempre su tutto il metodo del vedere-riflettere-agire. Piano piano è nata in tanti e tante la capacità di diventare protagonisti con iniziative bellissime, portate avanti con responsabilità e creatività, senza dipendere dall'aiuto materiale dei missionari. Non eravamo noi a prendere decisioni al posto loro, ma lasciavamo che maturassero dalla gente, mano a mano che acquisiva una nuova coscienza. Come una volta che ci abbiamo messo tre anni per arrivare a delle decisioni condivise sul matrimonio cristiano, che fossero rispettose di alcune loro sane tradizioni culturali. Si lavorava in commissioni, dal centro ai villaggi e viceversa e alla fine loro e anche il Vescovo di allora, africano, erano entusiasti delle risoluzioni prese. Noi invece, con la nostra mentalità europea, lo eravamo un po' meno, ma era traguardo raggiunto da loro e l'abbiamo accolto. Anche nella modalità abitativa, la nostra missione non aveva cancelli o "attenti al cane", ma noi padri e la famiglia vivevamo in due semplici casette e Luisa ed Emma in una capanna in mezzo al villaggio. Pranzavamo e cenavamo serripre insieme e le lunghe serate africane, quando eravamo in sede, erano occasioni uniche per conoscerci meglio raccontandoci i nostri vissuti e anche per condividere intuizioni e progetfi. Un periodo decisamente positivo ed entusiasmante per la mia vita missionaria.

Una necessità: formare laici missionari
Conoscevamo tanti volontari internazionali, ottima gente con la quale c'era stima e collaborazione, ma non erano missionari laici come era nella nostra esperienza e come anche la Chiesa italiana in quel tempo incominciava a pensarli. Alla fine ci siamo detti: se vogliamo laici missionari dobbiamo prepararli, trovando la modalità giusta che rispetti le loro esigenze di vita. Dopo tre anni di discernimento, tra noi e con i miei superiori, abbiamo deciso di rientrare in Italia e di iniziare e io, Emma e Luisa ci siamo offerti. Intanto in comunità c'erano stati avvicendamenti. Era partito p. Giovanni Montesi, eletto dai sx vice regionale ed era arrivato p. Giuseppe Mauri che, con un discernimento con Mons. Mulindwa, allora vescovo di Bukavu, ha preso il mio posto come parroco a Bunyakiri. lo pensavo di restare in Italia pochi anni per avviare un qualcosa per la formazione di questi laici missionari e poi di tornare in Africa, ma le cose sono andate ben diversamente.

A Piombino, per formare laici missionari
Tornati in Italia, io, Emma e Luisa abbiamo cercato un posto dove vivere e iniziare, sempre in dialogo con i miei superiori della Direzione Generale. E' stata un'avventura, su e giù per l'Italia, fino a che un prete di Torino ci ha indicato la Toscana. Avevamo preparato un Progetto di Vita scritto, nel quale esponevamo i punti essenziali di ciò che volevamo vivere e realizzare e abbiamo chiesto udienza agli allora Vescovi della Regione. Anche p. Meo Elia, persona aperta, intelligente e profetica, che ci seguiva nella ricerca e a quel tempo consigliere generale, diceva: "Ma è assurdo, un prete con due donne. E chi vi accetta?" E invece tutti ci hanno accolti e invitati a fermarci nelle loro diocesi. Abbiamo scelto infine di stabilirci in quella di Massa Marittima-Piombino, quella che ci sembrava la più bisognosa e che ci aveva spaventati di più per la situazione ecclesiale e sociale, accolti a cuore e braccia aperte dal grande Vescovo Mons. Lorenzo Vivaldo. Abbiamo così iniziato a vivere nella parrocchia del Cotone, alla periferia di Piombino, quartiere a ridosso delle acciaierie dove nessuno dei preti diocesani voleva stabilirsi per il grande inquinamento e per la quasi nulla partecipazione ecclesiale: su tremila abitanti frequentavano la chiesa sette persone e tutte anziane. Anche l'allora superiore generale dei saveriani ci aveva scoraggiati con simpatica ironia: "Non ha senso. Quando uno vuole scegliere i cantori per la Scala, non va a cercarli tra le voci sgraziate dei bassifondi, ma là dove ci sono quelle belle e promettenti. Lì non troverete mai niente!". Con un "Proviamo!" sono partito per questa nuova avventura con Emma, perché Luisa nel frattempo era tornata in Congo dove ancora vive oggi: cinquant'anni di coraggiosa presenza in questa terra come missionaria laica! Il Vescovo locale era cosciente che non ero lì per fare il parroco tradizionale, ma per dar vita a un ambiente formativo per laici che sceglievano di donare alcuni anni della loro vita per la Missio ad Gentes e che, quindi, la parrocchia che gestivamo doveva diventare una parrocchia missionaria. Ci ha lasciati fare guardando incuriosito, facendo discernimento con noi e approvandoci e così si sono comportati tutti i Pastori diocesani che gli sono succeduti, certo tra aperture e fatiche, come sempre succede nella vita reale. Per spiegare cosa ha voluto dire far diventare missionaria la nostra prima parrocchia e poi un'altra che mi è stata ulteriormente affidata, ci vorrebbe un romanzo e quindi tralascio, ma ci sono state fatte tante altre interviste in cui ho raccontato tutto questo. Accenno solo che ci siamo continuamente basati su un brevissimo brano del Vangelo di Marco (3, 13-15) in cui è descritto in embrione il sogno di Gesù sulla sua Chiesa: "Li chiamò, perché stessero con Lui (Chiesa Comunione) e per inviarli (Chiesa Missione) ad annunciare e a scacciare i demoni." A partire da qui, abbiamo sviluppato missionariamente tutto il lavoro pastorale a Piombino, durato trent'anni.

In accordo con la famiglia saveriana
Ci tengo ancora a precisare che tutto ciò che vivevo lo facevo d'accordo con la mia famiglia religiosa, p, ima con la Direzione generale alla quale rendevo sempre conto, poi con i responsabili della Regione Italiana. Ho sempre cercato di partecipare agli eventi principali della vita saveriana in Italia per essere vicino e dialogare. C'è sempre stato questo dialogo fraterno e anche se alcuni non hanno capito e mi hanno criticato come uno sempre fuori dagli schemi, altri confratelli e tutti i superiori mi hanno sorretto, e così ho e abbiamo potuto continuare in questa avventura. Emma, soprattutto, ha sempre creduto che la mia vita religiosa fosse profondamente da figlio del Conforti, pastore di una chiesa diocesana e padre di missionari. Lo spero anch'io: certo personalmente sono stato sempre onesto e lascio ad altri il giudizio finale sul tutto.

Preti e laici, uomini e donne, in missione
Ci siamo accorti presto che per quello che volevamo realizzare non bastavano tre anni, ma ci voleva tempo, tempo per formare una comunità cristiana, tempo per accompagnare i laici. Non è che uno chiede e parte, ma chiede, si forma, si valuta e si decide insieme. I tempi di formazione erano di un minimo di tre anni, non abitando però con noi a Piombino, perché i laici hanno i(oro specifici impegni di vita e di lavoro. Venivano un week-end una volta al mese, dal venerdì sera alla domenica pomeriggio. L'esperienza formativa ci aveva fatto capire che i giovani che si presentavano dovevano fare prima della partenza una scelta definitiva di vita, senza giocherellare e ci siamo ritrovati poi a far partire per la Missio ad Gentes coppie di sposi. A quel tempo eravamo invitati sovente al CUM di Verona, col quale c'è sempre stato un forte legame, per contribuire alla formazione dei missionari rientrati in patria, aiutandoli a ripensare e a reinventare in Italia, senza scoraggiarsi, la loro esperienza missionaria. Tra i partecipanti ci fu anche un prete di Milano, don Aldo Farina, che ascoltandoci disse: "Quello che proponete come partenza missionaria ai vostri laici la desidero anch'io. Il Card. Martini mi
invia in Tchad, a N'Djamena, ma la situazione è difficile e da solo non ce la faccio. Potrei partire con le vostre coppïe?" Ci siamo dati appuntamento in Africa per valutare con lui e con l'allora vescovo Mons. Vandam, il quale, intuendo che i nostri laici non erano volontari internazionali, disse: "Venite, proviamo!" E' partita così la prima coppia, Marco e Marta di Milano, formati da noi e inviati dalla loro Chiesa Ambrosiana. L'esperienza con questa grande diocesi è stata molto bella e ci ha illuminati per tutte le altre partenze con diocesi diverse. Intanto stavano nascendo i Laici Saveriani, Comboniani, della Consolata, ecc... ma le nostre coppie erano laici cristiani delle loro diocesi e basta, supportati dall'impegno formativo e di accompagnamento del nostro Centro Fraternità Missionarie che avevamo legalmente fondato allo scopo. Per tutto questo cammino delle nostre coppie con le loro Chiese di origine, siamo stati negli anni punto di riferimento per diverse diocesi italiane e qualcuna ha anche iniziato un percorso autonomo sulla nostra falsariga. Ritorno un attimo a Milano, come esperienza ecclesiale fortemente significativa. Sposando la nostra modalità di formazione e di invio, ci hanno anche sostenuto coprendo il 50% delle spese in tempi in cui i laici missionari non avevano ancora alcun contributo dalla CEI. Da Milano sono partite due coppie, per scelte fatte direttamente da questi giovani sposi, che vedevano nella nostra modalità di partenza la risposta ai loro desideri di missione, vissuta in fraternità tra laici e preti e con uno stile semplice di vita, totalmente inserito tra la gente locale. Dopo il Tchad si è aperta la Cina, una famiglia di Cremona con un padre saveriano, per tre anni significativi, tra positività e grandi fatiche. Poi è arrivato il Mozambico con una coppia di Piombino, insieme al confratello p. Giuseppe Mauri e a un prete diocesano di Pitigliano. Coppie e preti hanno poi continuato a formarsi e a partire per Tchad, Mozambico e Tunisia, fino al 2015.

Chiese che diventano missionarie
Dicevamo: "Perché facciamo con le Chiese locali? Perché sono esse che devono diventare miss,onarie e noi dobbiamo aiutarle." Come religiosi missionari, storici e ad vitam, saremo sempre necessari, ma vorremmo che ci fosse di più questo lavoro con le Chiese locali, perciò ci piacerebbe farlo insieme, anche con e tra le varie famiglie laicali comboniane, saveriane, ecc... Un sogno da perseguire e che si fatica a far diventare realtà. Si è andati avanti così per trent'anni, fino a che ci siamo detti con Emma: "Abbiamo quasi ottant'anni, è difficile continuare, dobbiamo fare obbedienza al tempo che passa". Era un lavoro impegnativo, sia per la formazione e sia, per me, per il tipo di contatti che dovevo tenere tra le diocesi di provenienza dei partenti con quelle di destinazione missionaria, con continui viaggi, incontri, dialoghi, mediazioni. Abbiamo deciso di sospendere la nost, a attività, sia parrocchiale che del Centro Fraternità Missionarie e ci siamo affidati alle Direzioni Regionale e Generale. Questi ultimi sono venuti a trovarci nel 2018 con cuore aperto e fraterno. Poi i superiori hanno deciso: io sono stato mandato a Modica ed Emma è rimasta a Piombino come responsabile e animatrice della parrocchia, su mandato ufficiale dell'attuale Vescovo.

A Modica, fra i migranti
Ho accolto la proposta della Direzione Regionale e nel 2019 sono andato a Modica, in Sicilia, in una comunità intercongregazionale iniziata dalla CIMI, per una presenza e un servizio nella realtà dei migranti. Agli inizi ho fatto tanta fatica, soprattutto perché mi sembrava più una presenza da assistenti sociali: impegni con la Caritas, con chi sperava di trovare un lavoro, o accompagnando in fabbrica chi l'aveva già trovato, tanti problemi a cui rispondere... Tutto bello e necessario, mi dicevo, ma non basta, noi missionari dobbiamo fare qualcosa di più e di diverso. Ma cosa e come? Mi si diceva: "Più di quello che facciamo non possiamo!". "Cominciamo a stare con loro - rispondevo - a parlare, dialogare e ricercare insieme". "Ma non è possibile - ribattevano - hanno i loro lavori, le loro cose, non è che si fermano per noi!". Ho continuato a proporre e alla fine, piano piano, ci siamo indirizzati bene, anche per l'arrivo in comunità di suor Dorina, comboniana, con la quale c'è stato subito un incontro e un intendersi meraviglioso, e suor Raquel, della Consolata. Stavamo incominciando a lavorare e a sognare anche lì... quando è arrivata questa malattia che ora mi blocca nella nostra Casa Madre a Parma. E' stato come avere una bella e potente macchina tra le mani con la quale sono andato a sbattere violentemente e mi sono fatto molto male. So che la mia vita sta per finire, ma continuo a sognare, fidandomi di Lui...

Perché sempre ai margini?
Perché sempre ai margini della mia congregazione? E' stata la mia sofferenza, perché ho sempre fatto tutto con il permesso dei superiori. A Piombino, quando mi dicevano: "Decidi cosa vuoi fare", io rispondevo: "0 da saveriano o niente! Se non lo volete, vengo via". Mi hanno sempre lasciato andare avanti, però con l'impressione che io avessi sempre una idea di troppo, che fossi esagerato e troppo avanti rispetto ai tempi che non erano maturi. Ma quando mai lo saranno? I tempi sono maturi quando noi incominciamo. A Modica erano finalmente maturi, perché mi avevano mandato loro. Malgrado queste incomprensioni, però, Modica è stata per me una esperienza bellissima con questo stare insieme, progettare e lavorare tra famiglie missionarie diverse e io spero che Modica continui, che qualcuno, anche tra i saveriani, continui a buttarsi in questa significativa avventura. Sarebbe bello che i giovani da noi vedessero gente che vive radicalmente il Vangelo e forme concrete di vita che lo realizzano. lo ho solo cercato di vivere questo, pur con tutti i miei limiti e povertà.

Con le donne
"Una cosa che hai visto importante è collaborare con i laici, vivere insieme la missione, in particolare con la donna. Come prete e come uomo, che senso e che valore aggiunto ha significato la presenza di Emma e di altre donne nella tua missione?"

Quando da Bunyakiri è partita l'ultima laica, prima Emma poi Luisa, ricordo che in una chiesa una mamma aveva chiesto: "Quando tornerà con noi un'altra "mama"? Perché a voi padri, anche se siete bravi, le nostre cose non ve le possiamo dire. Abbiamo bisogno di qualche donna con noi!". lo avevo già deciso, fin dalla mia ordinazione presbiterale, di non vivere la missione solo tra maschi, malgrado la formazione ricevuta: attenti alle donne, attenti di qui, attenti di là... Ero andato apposta dal padre spirituale, Amato Dagnino e gli avevo detto: "Divento prete, ma a una condizione, prete per gli uomini e per le donne. Se queste ultime sono un rischio, lo corro volentieri, perché non mi sembra giusto ignorare e tralasciare il femminile". P. Dagnino aveva sorriso, incoraggiandomi. Avevo visto già nei gruppi giovanili che voi donne eravate diverse, complementari. Facevamo animazione missionaria insieme, giovani padri e Sorelle saveriane: Clara Caselin, Lucia Molatore, Elena Loi, Tea Frigerio e si notava la feconda diversità. Certo che c'era del pericolo, ma stava a noi essere onesti e sinceri, come del resto devono fare anche gli sposati. Quello che mi ha sempre fatto vivere bene queste esperienze miste sono state la Parola di Dio riflettuta e vissuta insieme e la conoscenza continua di sé, attraverso gli strumenti adatti. A Bunyakiri non era più possibile pensare a una missione senza la presenza femminile. Per le sessioni formative degli animatori e per le visite alle comunità, eravamo sempre un prete e una donna, ma i cristiani capivano benissimo, ci accettavano e notavano l'influenza positiva che esse avevano sulle loro donne. I pagani pensavano che fossimo marito e moglie, ma non si scandalizzavano perché parlava il nostro comportamento. Chiaro che noi preti avevamo il nostro specifico ruolo ministeriale maschile, che però doveva essere vissuto non da capo che domina, ma come di uno che fa comunione, che coordina, che presiede l'Eucaristia... Oggi, con l'avanzare degli studi biblici e teologici femministi, ci sarebbe da discutere anche su questo che ancora ci sembra ovvio e intoccabile... Comunque io ho sempre chiesto di andare in comunità composte da uomini e donne, perché senza il femminile la missione è ovvia: tra maschi si sa già cosa si fa e si dice, invece
con una donna non lo sai mai... c'è sempre una diversa creatività. L'ho visto anche in questo poco tempo a Modica. Davanti a un problema io vedevo una soluzione, ma subito suor Dorina ne aveva un'altra, anche più bella e logica della mia, sulla quale discutevamo e trovavamo un'intesa. La cosa più bella è proprio questa creatività che noi maschi abbiamo di meno. Noi abbiamo forse più sviluppata la logicità, l'inquadramento, il ragionamento, voi avete invece questa fantasia che all'inizio ci scombussola, ma poi va a finire come dicevate voi... In missione abbiamo spesso notato che chi corrispondeva di più alla fiducia data erano soprattutto le donne. Quando davamo fiducia a loro eravamo sicuri, se la davamo ai maschi c'era sempre qualcosa che andava storto... Emma l'ho conosciuta in Africa, non in Italia e non è stato amore a prima vista! C'erano p. Meo Elia e p. Giovanni Montesi, con i quali si intendeva bene. lo sono venuto dopo e per di più non sono un tipo che parla molto, faccio piuttosto le cose piano piano, in silenzio, con calma. Col passare del tempo però, ci siamo capiti a fondo e abbiamo affrontato assieme tante cose. In Italia sono venuto con lei anche lottando con chi mi diceva: "Non è possibile, così ti stacchi dalla congregazione". Rispondevo: "Ci proviamo e dialoghiamo!" Col dialogo si arriva a tante cose che subito non sembrano possibili e infatti abbiamo avuto tutti i permessi, sia dai superiori che dalle diocesi. Certo, in Toscana inizialmente su noi due hanno detto quello che hanno voluto, ma poi sono arrivati il rispetto e la stima a tutto campo. Tra noi c'è stato un legame di dialogo, di profonda amicizia e di riflessioni, inseriti nella vita della gente e animati dall'approfondimento della Parola di Dio, continuando la consuetudine acquisita in Africa. Ci siamo aggiornati, insieme alle nostre comunità parrocchiali, con biblisti, bibliste, teologi e teologhe... avanzati, una vita intensa e vivace quella con Emma! Ho avuto questo tipo di rapporto con la donna, ma credo che ormai è fondamentale e che non sia più possibile fare altrimenti. Poco tempo fa anche suor Dorina, a Modica, mi diceva: "Ma come è diverso vivere solo tra donne! Qui in comunità mista è tutta un'altra cosa, più semplice, vivere assieme, dialogare, confrontarsi e affrontare comunitariamente i problemi". Vero o no, se una donna che ha avuto il primo incarico dell'annuncio delia risurrezione, la Maddalena, è l'aposto!a degli apostoli, perché non possono esserlo anche tante altre donne oggi?